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Fare arte per salvare le donne. Intervista a Sonia Versace

Calabrese, classe ’74, Sonia Versace ha vissuto una vita all’insegna dell’arte, alla riscoperta di se stessa grazie alla MobileArt, una innovativa forma di arte “ibrida” che mescola tecniche classiche, nuove tecnologie e canali di diffusione digitali.

Intervistata da Sicilia Magazine, Sonia si racconta parlando di quanto la MobileArt sia stata “terapeutica” non soltanto per lei, ma anche per tutte quelle donne vittime di violenza fisica o psicologica. Un tema, quello della violenza di genere, che ha più che mai bisogno di artisti incisivi pronti ad affiancare il coro di voci pubbliche su questa orrida piaga sociale.

 

Quando e come è iniziata la tua passione per l’arte?

 

È iniziata alle scuole medie. Mi piaceva disegnare i cantanti. Trovavo una fotografia e la copiavo. Una volta disegnai Rosanna Casale: non dimenticherò mai quel disegno. Trovai un’immagine su una rivista e decisi di ridisegnarla. Alle spalle avevo i miei genitori che mi guardavano stupiti. Già allora amavo molto la musica, come oggi. Ma l’arte figurativa aveva un posto speciale nel mio cuore. Per questo decisi di iscrivermi al liceo artistico. Così è iniziato il mio “percorso”. Anche se tra ieri a oggi c’è stata una pausa lunga ventisei anni.

Come hai vissuto questa “pausa”?

 

Oggi so che ho rinunciato a una parte di me. Mi sono dedicata per anni, e totalmente, al matrimonio e alla famiglia. Poi, dopo la separazione, ho ritrovato quella parte di me che avevo seppellito. Sono tornata quella che ero in passato, sono tornata me stessa. Sono tornate la mia creatività, la mia sensibilità, la mia empatia. Ed è tornata la libertà.

 

La tua storia d’amore con l’arte è ricominciata nel 2020…

 

Sì. È accaduto durante il primo lockdown. La separazione è stata una decisione difficile. Fino ad allora, nella mia vita erano esistiti soltanto gli altri. Quello che desideravo io veniva dopo, non mi interessava. E la pandemia è stata un’occasione per iniziare un percorso introspettivo. Ho capito che quella non era la vita che volevo. Ma non ho preso la separazione come un fallimento o una disgrazia. Al contrario: è stata una rinascita. Una seconda vita all’insegna della MobileArt.

Come è nata l’idea della MobileArt?

 

Avevo quasi “dimenticato” l’arte. Poi ho un giorno ricevo la telefonata di una cara amica, una grande artista calabrese trapiantata in Sardegna, Rosaria Straffalaci. La sua è un’arte informale. La MobileArt. Io le racconto le mie difficoltà. All’epoca avevo l’autostima sotto i piedi. Non mi scattavo mai foto. Strano, visto che viviamo nella società dei selfie. Ho seguito un corso di Rosaria sulla MobileArt a distanza durante il lockdown, in videochiamata. E con il tempo ho iniziato a scattarmi delle foto, a riscoprirmi, a guardarmi di nuovo allo specchio, a truccarmi… Dentro di me iniziavo finalmente a pensare: “Forse non faccio così schifo!”.

La passione per la MobileArt nasce così, da un’esperienza personale: scoprendo che con i dispositivi mobili – un linguaggio tipicamente contemporaneo – si può fare arte. Io la chiamo anche “arte a portata di mano”, perché può nascere ovunque: quando sei a casa, o in giro, o in una sala d’attesa…

 

Tecnicamente come funziona? Quali sono i passaggi creativi di un’opera di MobileArt?

 

Parte tutto da uno stato d’animo. Tecnicamente inizio da uno scatto fotografico, poi sovrappongo altre immagini e altero i colori attraverso l’utilizzo di applicazioni. Infine passo tutto sulla tela, dove posso apportare ritocchi con i pennelli. La creazione di un’opera può durare anche solo mezzora, quando c’è l’urgenza di creare.

È stata una forma d’arte molto liberatoria: ho capito che attraverso la fotografia era possibile riscoprire me stessa: la mia interiorità, la mia anima lacereta… E poi mi sono ritrovata come artista e come persona. Anche se all’inizio mi vergognavo a essere chiamata “artista”. Ero stata troppo spesso nascosta nell’angolino. Non mi piaceva stare al centro dell’attenzione. Ma creando sono uscita da quell’angolino e mi sono resa conto, attraverso i social network, che quello che creavo emozionava anche gli altri.

 

I social network vengono spesso criticati. Eppure, alle volte, possono risultare dei canali per far conoscere una nuova corrente artistica…

 

E non solo! Con le mie opere parlavo di una piaga sociale: le relazioni tossiche, la violenza di genere… La mia lente di ingrandimento si è posata proprio sulle donne vittime di violenza psicologica. In questo, Rosaria Straffalaci mi ha aiutata molto.

Ho iniziato a ricevere molti messaggi da parte di donne che si rivedevano in quelle immagini. Allora mi sono offerta: “Sfogatevi con me, raccontatevi!”. Ed è iniziato un confronto con donne da tutta Italia. Chattavamo di notte, perché durante il giorno eravamo tutte impegnate in famiglia. Quando mi contattavano, capivo subito che avevano bisogno di raccontare la loro storia. Molte volevano che io creassi opere ispirandomi alla loro vicenda, ma… utilizzando il mio volto. Questo non deve sorprendere: ci sono donne che vogliono raccontarsi sui social, iscritte con nomi falsi perché sono stalkerizzate da ex mariti o compagni. Sono riuscita a convincerne alcune a metterci la faccia e il nome, ma questo può accadere solo quando hai superato la paura che ti blocca e che non ti fa andare avanti. Molte sono rimaste anonime, con un nome falso. Ogni storia è diversa. È importante rispettare i tempi di tutte.

Come fai a creare un’opera ispirandoti alla storia di un’altra donna?

 

Si inizia con una sorta di indagine “psico-emotiva” sul soggetto che diventerà la protagonista dell’opera. Il mio obiettivo, già allora, era parlare attraverso l’immagine; o, più precisamente, permettere all’anima protagonista della storia di parlare attraverso l’immagine. Io “porgo la spalla”, ma la voce è di chi ha vissuto la storia. A volte, guardando le mie opere, la gente pensa che io sia disperata. Ma io, attraverso la MobileArt, racconto le storie di altre donne.

È stato molto terapeutico per me. Ascoltare le storie delle altre mi ha aiutata a capire la mia. Sono soddisfatta perché molte donne mi vogliono bene, mi incontrano per strada e mi chiedono consigli. Ci sono donne che sono venute a bussare alla mia porta per piangere con me. Ma non sono la paladina di nessuno. Ogni tanto mi chiedo: “Chi sono io per dare consigli?”. La decisione di cambiare è individuale. Solo che spesso ci manca il coraggio.

 

Qual è secondo te la cosa più difficile da affrontare in una situazione del genere?

 

Superare la paura… e la speranza. Mi spiego: purtroppo viviamo troppo spesso affidandoci alla speranza. Io ho ascoltato tante storie e molte, troppe, ci raccontano la stessa cosa: “Non dicevo niente, mi tenevo tutto dentro e restavo con la speranza che lui cambiasse”. Ma com’è che si dice? Chi vive di speranza muore disperata.

Quello che serve è il coraggio. Senza coraggio non si decide mai, perché c’è troppa paura. Oppure c’è un carnefice che ti dice che non ce la farai senza di lui. Le storie sono così tante… Molte hanno paura di essere ammazzate se si allontanano, allora dicono: “Meglio se me ne resto buona e subisco”. La legge, parliamoci chiaro, non ci tutela. Ma quando arriva il coraggio riesci a fare il primo passo.

 

Qual è stata la risposta del territorio di fronte alla MobileArt e al tema che hai sollevato?

 

Abbiamo realizzato una mostra al Museo MAFRA a Francavilla di Sicilia, anche grazie all’aiuto dell’autore Domenico Galofaro. La mostra, dal titolo Dall’oscurità alla luce, segue uno storytelling che è il mio percorso, ma anche quello di moltissime altre donne. Un percorso di rinascita. La risposta del territorio è stata bellissima: tantissime donne si sono emozionate e avevano le lacrime agli occhi.

Ho un rapporto di forte empatia con queste donne. Inizialmente stavo male perché assorbivo le loro storie. Poi, ascoltando e riascoltando, ho capito che dovevo corazzarmi, essere più forte anche per loro, e oggi le ascolto e continuo a sentire le loro emozioni, ma sono più consapevole e capace di aiutarle. Se ce l’ho fatta io, del resto, perché non ce la possono fare anche loro?

E ho scoperto che gli uomini non sono tutti uguali: ci sono uomini sensibili, empatici, che aggiungono qualcosa alla donna e non tolgono.

Quali progetti ha la “nuova” Sonia per il futuro?

 

Vorrei che la MobileArt arrivasse nelle scuole e insegnasse ai giovani che è possibile usare uno smartphone non solo come uno strumento passivo, ma anche per dare sfogo alla creatività. Le passioni nascono anche così.

E poi… in questo percorso è rinata l’artista che si era addormentata in me. La scultura, per esempio, è sempre stato un mio amore. In passato ho studiato scenografia ma questo amore per la scultura non se ne è mai andato. Così ho deciso di riprendere gli studi all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Oggi ho una carica nuova. Sento che ce la farò.

 

Claudio Santoro

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